Le vette della Majella Meridionale sul Versante Est della Valle di Taranta

Cima del Colle dell'Acquaviva - Altare dello Stincone - Cima dell'Altare - Monte Amaro


1° giorno – Sabato 20 Settembre

La Majella, la madre di tutte le montagne, come gli abruzzesi amano chiamarla, è così vasta ed infinita, ti fa dannare al solo pronunciarne il nome, è così tanto uno spauracchio, che nei suoi confronti più o meno tutti gli sparuti drappelli dei “dannati” da 2000 hanno grossi e pesanti debiti da saldare. Il nostro, “…quelli di Aria Sottile”, è davvero un piccolo drappello di montanari, non per questo sprovveduti, ma tutti quanti, chi più chi meno, abbiamo debiti da saldare verso la Montagna Madre; a Luca, in particolare, mancano solo tre vette per fregiarsi del titolo “maximo” di “grandissimo appenninista”, e guarda caso tutte e tre sono in groppa alla Majella, il filotto delle tre vette sul lato Est della Valle di Taranta, la Cima del Colle dell’Acquaviva, l’Altare dello Stincone e la Cima dell’Altare. L’occasione , era ghiotta, tutto in un’uscita, Luca raccoglie il titolo massimo di questo gioco, tutti insieme lo si festeggia e magari ognuno approfitta pure per saldare qualche debito. L’idea ha preso via via consistenza, è servito fare un bello slalom tra gli impegni dei tanti ed i week end compromessi dalle condizioni meteo ma alla fine ci siamo riusciti. Anzi, l’idea iniziale è servita da base di partenza per un progetto più grosso; dal momento che per tutti sul versante meridionale della Majella c’erano i famosi “debiti” da saldare, la proposta è venuta a modificarsi velocemente ed il progetto è cresciuto a dismisura. Il corteo per accompagnare Luca alla sua duecentoquarantunesima vetta è diventato una tappa di una due giorni; Luca con Giacomo e Stefano si sarebbero accontentati del traguardo “parziale” delle tre vette e sarebbero riscesi per rientrare a casa, mentre per me che scrivo, Giorgio ed Augusto si sarebbe trasformato in una due giorni, con pernotto al Pelino e ritorno sul versante Ovest della Valle di Taranta. Insomma, trovato il we giusto e la quadratura del cerchio, ognuno con le proprie prospettive, qualcuna in comune, ognuno col proprio peso sulle spalle, per noi della due giorni davvero più esagerato del solito, incredibilmente, siamo riusciti a partire tutti insieme. Viaggio di avvicinamento da Roma lunghissimo come al solito ma arriviamo puntuali all’apertura della bidonvia del Cavallone; il solito ormai conclamato ritardo di partenza dell’impianto e alle 10 siamo alla stazione alta a quota 1400. Conoscendo il percorso per averlo già fatto ci siamo diretti senza indugio verso l’attacco del sentiero tra qualche goccia di pioggia che non ci ha scalfito un solo secondo; attacca accanto alla scalinata di ingresso alle grotte del Cavallone, quelli che sembrano gradini di accesso ad un locale di servizio delle grotte continuano in un ripido ma comodo sentiero che si inerpica a fianco della montagna. Pochi tornanti bastano perchè la vista sulla Valle di Taranta e sui costoni della valle stessa si allarghi e si faccia mozzafiato; a dire il vero, ripensandoci bene, è stato il ritmo inferto dai battistrada a mozzare il fiato (ed anche le gambe), al panorama c’è stato davvero poco tempo da dedicare, peccato. Per questo ritmo sostenuto la cresta, a quota 1650 circa, è stata conquistata in molto meno di un’ora; quest’arrampicata verso la cresta è formata da frequenti e ripidissimi tornanti, e poco prima di raggiungerla da una bellissima e larga cengia erbosa molto panoramica. Raggiunta la sella abbiamo preso l’evidente sentiero che sale da basso, dal rifugio di Fonte Tarì, solo per un breve tratto ad aggirare la rotonda altura che avevamo sulla sinistra; lo lasciamo dopo poche centinaia di metri, in corrispondenza di un paletto segnavia, e per i pratoni, in una costante, lunga, monotona prateria seguiamo una diagonale fino a raggiungere di nuovo le esposizioni della cresta che su questi fianchi taglia e precipita di netto verso valle. Un occhio agli altimetri, uno al bordo di cresta e ai tanti ometti disseminati lungo la linea di salita procediamo sparpagliati e allungati, il forte ritmo iniziale stava già facendo “morti e feriti”, fino a toccare quota 2003. Un ometto segna la prima delle vette inviolate da Luca e da altri, l’anonima Cima di Colle dell’Acquaviva; quando passai di qui la prima volta una scritta sull’ometto ne consacrava le coordinate, oggi non c’era nulla di nulla e ci si deve affidare agli altimetri. Questa cima è una delle più anonime dell’intero elenco del club, non per questo da sottovalutare come alcune ultime correnti di pensiero all’interno del Club vorrebbero, tanto da chiederne una sua cancellazione dall’elenco; è esposta su un bordo molto panoramico del tratto centrale della valle di Taranta, lungo il filo di cresta, sopra e sotto altre cimette e sporgenze. Non capisco perché volerla cancellare, il tratto merita una cima, se non in questo punto magari poche centinaia di metri sopra, magari in una delle tante cime più marcate; se la storia, se le tradizioni hanno una importanza non banale, tanto vale lasciare questa. Porteremo questa tesi alla riunione annuale del Club. Comunque, la foga di alcuni verso le quote più alte, ai più fa saltare la foto di rito; sfiorato l’ometto, vale comunque il passaggio, missione compiuta. Si continua sempre senza un respiro in costante monotona salita lungo il filo del baratro, promontorio dopo promontorio, salita dopo salita; poco dopo la Cima di Colle dell’Acquaviva lo sguardo si apre sulla parte alta della Valle di Taranta, su quel magnifico scoglio isolato dell’Altare dello Stincone che troneggia al centro, sarà la nostra prossima meta. Mentre sempre in ordine sparso, chi davanti col passo veloce chi più lentamente dietro, avanziamo verso la successiva cima, Luca , Giacomo e Stefano iniziano ad abbandonare il filo di cresta, si dirigono verso est tirando diritti verso le alture che avevamo di fronte. E’ Augusto che ci avvisa del loro perentorio cambio di programma; la fretta di tornare a valle, la nostra eccessiva lentezza forse, li spinge a cercare subito la Cima dell’Altare e suggellare poi la conclusione della giornata sulla via del rientro, sull’Altare dello Stincone che si troverebbe a quel punto lungo la direttiva per il ritorno. In tre quindi continuiamo col progetto iniziale, lungo il filo di cresta, aggiriamo, cercando di perdere quota il meno possibile, le linee verticali del bordo valle fino ad entrare nel canale che ci porta alla sella che anticipa la lunga piana striscia brecciosa che termina nell’omino di vetta dell’Altare dello Stincone. E’ la mia seconda volta su questa cima, le impressioni, le emozioni direi, sono le stesse della prima, è un gran bel posto per farsi rapire dalle peculiarità della Majella, quella profonda valle, un enorme canyon che si apre là sotto, dietro la vastità desertica, fino a quel piccolo puntino del bivacco Pelino in cima all’Amaro, è tutto enorme, infinito, lontano. Ed è anche una bella cima per bivaccare e rifocillarsi, e visto che ci siamo, è anche una bella cima per festeggiare Luca; li aspettiamo mentre mangiamo al riparo dal vento sulle roccette di vetta. Non tardano molto, evidentemente hanno una fretta indiavolata! Dopo venti minuti dal nostro arrivo sono già sull’orizzonte. Nel giro di un quarto d’ora sono vicini, vado incontro a Luca che è giustamente raggiante e al culmine della sua cavalcata; una cavalcata sulle cime degli Appennini che ha iniziato con me nel non molto lontano 16 Maggio del 2009, cinque anni in crescendo ed oggi siamo ancora insieme a suggellare il suo grande traguardo. Oltre al suo personale è anche un traguardo per il nostro gruppo, “… quelli di Aria Sottile” hanno il primo Grande Appenninista del Club 2000. Complimenti Luca. Il traguardo necessita del suggello, e spuntano bicchieri ed una bottiglia di Ferrari; che la festa abbia inizio e che si consacri la vittoria!!! Un po’ di ricordi della lunga e veloce impesa di Luca e riprendiamo ognuno per le proprie direzioni. I tre verso casa, una veloce discesa dentro la valle fino agli impianti della bidonvia, mentre per noi una meno veloce salita fino a quel puntino rosso del bivacco Pelino che si perde tra le nuvole in vetta al monte Amaro e che sarà la nostra casa per una notte; nel mezzo l’attraversamento dei piani alti, aridi e desertici della Majella, e la conquista della Cima dell’Altare. Salutati gli amici discutiamo sulle linee di salita per cercare di evitare il più possibile strappi e pendii ripidi, prendiamo verso Nord-Est, la direzione dell’Altare è assolutamente intuitiva e logica; inevitabili un bel po’ di saliscendi che alla fine si manifestano innocui. Dopo pochi primi avvallamenti, saliti ancora un po’ di quota, due grandi colossi rotondeggianti che si confondono col bianco lattiginoso del cielo compaiono sull’orizzonte, un solo attimo per riconoscerli, sono le tonde moli dell’Acquaviva e della sua anticima. Lentamente risalendo la piana l’orizzonte si apre ancora. Compaiono prima la lunga cresta con i ripidi crinali e la rocciosa vetta del sant’Angelo, poi di nuovo l’Amaro e più lontano Cima Pomilio; mi tornano familiari i contorni. Da ultima la nostra meta, Cima dell’Altare, che appare al termine del pianoro, che sembra cadere verticale su Valle di Macchia Lunga. Quando ci portiamo sul limite del piano verso Sud, dove lo stesso cade precipitando dentro l’ennesima “crepa” della Majella, è proprio la Valle di Macchia Lunga che ci regala un altro bello scorcio. Come la Taranta, la parte alta ad Ovest è dominata da verticali salti di roccia, un ghiaione poderoso modellato dagli agenti atmosferici accompagnano lo sguardo verso il basso (bassissimo) della valle dove un sottile sentiero si perde all’interno di una scura e fitta vegetazione. Già le fantasie ci portano a pensarci laggiù quando in un futuro non troppo lontano ci ritroveremo sulla via del Pizzone. Fantastica Majella. E poi Cima dell’Altare, il culmine del piano che sale all’Amaro, proprio dal monte prende il suo nome, appunto Piano Amaro; una sorta di altro piccolo Altare dello Stincone, ennesimo trampolino verso le profonde valli di questa enorme montagna. Ad Est strapiombano le moli dell’Acquaviva, imponente, pallido negli ormai tiepidi e caldi raggi del sole del primo pomeriggio e del Sant’Angelo , sottile, desertica cresta che si infila tra il piano dove siamo e l’Acquaviva. Fantastica Majella! Toccata l’ultima cima della giornata, goduto delle nuove prospettive, non rimaneva che continuare per assicurarsi un posto per la notte, procediamo a vista, verso il monte Amaro, sul piano che lentamente scende di poco fin dentro una ampia conca, sulla destra l’imbocco per la Valle delle Cannelle, il proseguo della Valle di Macchia Lunga, e l’imbocco del sentiero che scende ripido al rifugio Manzini; sulla sinistra lontana le basse formazioni rocciose che annunciano la Grotta Canosa. Continuando oltre la conca, in un piano erboso sotto l’ultima salita della giornata, approfittando di un momento di calo del vento, prima di prendere il ripido pendio che ci poterebbe sulla dorsale tra il Macellaro e l’Amaro decidiamo di fermarci; per riposare un momento, tanto siamo in largo anticipo, per mangiare qualcosa, per raccontarci delle fresche impressioni che la grande Majella ci sta regalando e per gustarci gli ultimi raggi del sole della giornata. Dura poco, appena sufficiente per abbandonarsi per qualche istante anche ad un fugace, illusorio pisolino; le nuvole che prima erano veloci e leggere si fanno compatte, avvolgono la cima dell’Amaro e nascondo il sole; la temperatura scende repentina, occorre rimettersi in cammino. Come prendiamo il pendio per il pendio che sta sopra di noi le nuvole prima si scuriscono ulteriormente e poi si abbassano, corrono veloci, a tratti spariscono e subito dopo ritornano, mi fanno venire in mente una frase detta da una persona del nord, abituata alla piatta e ferma nebbia della pianura : sono nuvole da corsa! Tra uno spiraglio e l’altro, prima che tutto venga avvolto nel grigiore ci imbattiamo in un branco di camosci che “bighellonano” sul ciglio della cresta; siamo molto vicini, cento, centocinquanta metri, ci vedono, per un attimo si fermano ad osservarci, ma forse la nebbia a folate ci nasconde un po’, non ci fa percepire come pericolo, forse il vento forte porta altrove il nostro odore, tanto che riusciamo ad avvicinarci ancora. Scattiamo un sacco di foto, lo sfondo della parete del Sant’Angelo, a tratti libero dalla nebbia e di un pallore rosaceo surreale esalta il profilo degli animali; il potente zoom della macchina fotografica di Giorgio fa tutto il resto e a casa ci portiamo davvero delle belle immagini. Poi la nebbia scende definitivamente proprio mentre i camosci di corsa decidono di sparire oltre la cresta, all’interno della Val Cannella. Non rimane che guadagnare la quiete del bivacco, togliersi dall’umidità delle nuvole corsare, improvvisamente così densa da percepirla come pioggia, e cercare di evadere le folate del vento via via più violente ogni passo che saliamo di quota. Gli ultimi 30 minuti sono affidati ai sensi, all’esperienza e per fortuna ad una traccia del GPS di Augusto, che è stata usata solo come estrema sicurezza per non sbagliare direzione. Augusto, da runner delle montagne che è, non accusa stanchezza, fila davanti veloce e lucido, percepisce la traiettoria per incontrare il sentiero che sale lo spigolo dell’Amaro, lo intercetta senza indugiare un attimo ed inizia ad inanellare i ripidi tornanti. Le nubi a tratti lo avvolgono, sparisce e riappare nel turbinio delle luci che filtrano nelle nuvole, sembra di essere ad uno dei confini del mondo ed è invece sublime. Non sarà un confine del mondo ma che sia un mondo inusuale e diverso si; tutto insieme poi, Giorgio è dietro di me, sento il suo respiro affannato, il profilo del bivacco compare nella nebbia, una macchia appena più scura nel grigio che ci circonda. Sorprende come il vento impetuoso non scalfisca minimamente l’impenetrabilità delle nuvole, fa niente ho pensato, le riflessioni le lascio volentieri a dopo e mi infilo all’interno del bivacco, molto rumore, un ululato direi ma finalmente quiete, almeno quella. Siamo i primi ad arrivare, sono passate da poco le cinque del pomeriggio; il sole che ha scaldato il bivacco fino a poche ore prima rendeva l’ambiente confortevole. Sono dieci le brande, divise in quattro “castelli”, non c’è nessuno e quindi scegliamo le posizioni più comode. Dopo esserci rimessi in sesto, sistemato le “cucce” ed imbandito una branda a mo’ di dispensa usciamo varie volte sperando di poter fotografare qualche sprazzo di tramonto. Ma niente, il vento intensifica le sue raffiche e le nuvole, la nebbia non da tregua; non rimane che arrendersi, rientrare e prepararsi a passare una serata all’insegna di una lunga chiacchierata. Quando siamo quasi certi che saremo gli unici abitanti del rifugio “riceviamo ospiti”; altri due escursionisti che avevano progettato il bivacco al Pelino. Scena che si ripete, e quando ormai manca poco a che si faccia notte e ci si prepara alla cena si riapre la porta del bivacco; chi è fuori è più sorpreso di chi è dentro, si aspettavano di trovarlo vuoto. Due coppie di ragazzi che perdendo il sentiero per il Manzini si sono ritrovati in cima all’Amaro. E per fortuna, perché senza conoscere la montagna, senza una carta, un GPS, una bussola, con la nebbia, il vento che c’era fuori e la notte che ormai era alle porte avrebbero potuto vivere una notte veramente da ricordare. Li abbiamo dovuti trattenere, col bivacco pieno, secondo loro, si sarebbero rimessi alla ricerca del Manzini dopo avere ricevuto qualche consiglio. Ovvio che non se ne poteva parlare, ci siamo stretti, rimescolati dal momento che su alcune brande pioveva la condensa che si andava formando, e … la festa è iniziata. Incredibile, un festino al Pelino, a 2800 metri altezza, non lo avrei mai immaginato. E’ uscito di tutto dagli zaini dei ragazzi: fornello da campeggio (pesantissimo), due bottiglie di vino, carne da farci straccetti con rucola e parmigiano, aceto balsamico, biscotti, dolce, la più fervida fantasia non avrebbe mai potuto immaginare una situazione simile. E la simpatia correva a fiumi, fantastici tutti questi ragazzi, un po’ sprovveduti … ma simpaticissimi. Alle 9 di sera se ne sono usciti con quel vento e si sono messi a cucinare, una via di mezzo tra lucida giovane follia ed organizzazione fino all’ultimo dettaglio. Insomma qualcosa che somigliava di più ad una scampagnata a Villa Pamphili che ad un bivacco di alta montagna. La fortuna come ingrediente principale per averli aiutati a raggiungere la vetta dell’Amaro ma il resto è stata una vera ed indimenticabile serata, che per loro è andata avanti a lungo mentre per noi che avevamo progetti impegnativi per il giorno successivo si è chiusa prima; la stanchezza della lunga salita è stata un buon sedativo per non sentire la festa che si è protratta. La notte è passata tra frequenti risvegli dovuti all’ululare del vento, sembrava che da un momento all’altro si portasse via il bivacco; il pensiero, ritmato dalle gocce di condensa che cadevano ormai ovunque, si rivolgeva al giorno successivo; la speranza era che almeno la montagna volesse concedere una splendida alba… Note tecniche della prima giornata: 1850 mt di dislivello in costante salita per un totale di 7,45 ore e 16 km.